Cercando sul web notizie relative alla Banda della Magliana ho trovato questo articolo pubblicato da Repubblica. A parlare è un vecchio componente della banda, un pentito.
ROMA - In un borgo del centro Italia vive un uomo di 62 anni che custodisce un segreto. Si chiama Antonio Mancini, "Nino l'Accattone". È stato un bandito e un assassino ("Ho ucciso quattro volte", elenca sulle dita di una mano). Nel direttorio criminale padrone di Roma tra la metà degli anni '70 e i primi anni '90 e consegnato alla Storia come "Banda della Magliana", sedeva alla destra di Franco Giuseppucci "er Negro" e Maurizio Abbatino, "Crispino". È diventato un "infame" per risparmiare alla figlia adolescente Nefertari quello che è toccato a lui. "Infame" ieri, nello svelare il ruolo della Banda nell'omicidio di Mino Pecorelli. "Infame" oggi, nell'indicare il responsabile (Enrico De Pedis) e il movente ("una pressione sul Vaticano e lo Ior di Marcinkus") del sequestro di Emanuela Orlandi. Ora, però, con la stessa naturalezza con cui pesca l'ennesima "Marlboro" dal pacchetto, Nino l'Accattone dice qualcos'altro: "La Banda della Magliana esiste ancora. Ha usato e continua ad usare i soldi di chi è morto e di chi è finito in galera. E non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare troppo spesso". "Vedi - insiste - Io non sono uno che farfuglia. Non do opinioni. Dico che quella storia non è finita perché lo so. Basta andare a cercare chi ne è uscito alla grande quindici anni fa. O magari chiedersi come mai i miei soldi di bandito, un miliardo e trecento milioni di lire, sono finiti, come ho saputo, nelle tasche di Danilo Coppola. Il "furbetto del quartierino", quello delle scalate alle banche. Prima di andare dentro, avevo affidato quei soldi a Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda. E non li ho mai rivisti. Che ci ha fatto Nicoletti con la montagna di miliardi della Banda?".
Mancini continua e svela altre cose. Ecco il testo tratto da Repubblica.
IL CASSIERE
La Banda della Magliana non è dunque un pezzo di archeologia giudiziaria, dice Mancini. Accattone offre una traccia. Fa due nomi: Enrico Nicoletti, Danilo Coppola. Invita a cercare risposte a una domanda. Chi ha continuato a muovere le ricchezze di quell'Agenzia del Crimine? Enrico Nicoletti, oggi, ha 74 anni. Nonostante una condanna definitiva per appartenenza alla Banda (sei anni, ridotti a tre e mezzo nel 2000) e una sentenza di primo grado, nel 2008, a dodici anni di reclusione per associazione a delinquere, estorsione, riciclaggio, continua ad amministrare un fiume di denaro dal salotto della sua villa di Torre Gaia, dove, per un quarto di secolo, si è genuflessa la Roma che conta. Magistrati, avvocati, dirigenti di banca, imprenditori. Mancini non lo indica a caso. Per dare un'idea, nel 1990, Nicoletti, che risultava nullatenente e dichiarava al fisco un reddito annuo di 450 mila lire, era seduto su una ricchezza che la Guardia di Finanza stimava in oltre duemila miliardi di lire (1 miliardo di euro). Nicoletti detesta i ficcanaso. Soprattutto ora che si è convinto di poter riavere parte di ciò che negli anni gli è stato confiscato. Tanto più che il suo processo di appello, curiosamente fermo da un anno e mezzo, si avvia, nel più assoluto silenzio e disinteresse, a probabile eutanasia da "processo breve". Raggiunto al telefono, non gradisce dunque il disturbo e si abbandona prima a del sentito turpiloquio, quindi a qualche minaccia. Non vuole parlare. Anche perché i suoi guai non sono con i morti e il folclore nero di ieri (De Pedis, Abbruciati, Giuseppucci), ma con i vivi di oggi. Negli ultimi dieci anni si è rimesso in affari con i figli, Massimio e Antonio, detto "Tony" (arrestati più volte negli ultimi anni). Per un periodo gli si sono incredibilmente riaperte le porte del credito (l'agenzia di Montecitorio della Cassa di Risparmio di Rieti gli concede, negli anni '90, nonostante sia stato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e sottoposto a misure di prevenzione, un fido di 8 miliardi di lire). Ha annodato saldi rapporti con i Casalesi, investendo in supermercati nelle aree sotto il loro controllo e facilitandone il radicamento a Roma. Non ha mai smesso di prestare i soldi a strozzo, né - come ha raccontato nel 2000 alla Procura di Roma Ennio Mazzalupi, una delle sue storiche vittime - di garantire con il suo denaro i grandi carichi di stupefacente, in conto Camorra e 'Ndrangheta, in ingresso sul mercato romano. Ha accompagnato - almeno alle origini - le fortune di Danilo Coppola, la "faccia nuova" della finanza italiana. Ne è stato una delle tasche.
"IL FURBETTO"
Dimenticato dalle cronache, dopo la galera nel 2007 e una prima condanna a sei anni per bancarotta, Danilo Coppola è tornato nei suoi uffici di via Morgagni, a Roma. Gli attacchi di claustrofobia sono solo un ricordo, come le pulsioni suicide. Nonostante i 600 milioni di euro di debito verso il fisco, i 40 fallimenti pendenti per altrettante società del Gruppo e l'ormai prossima conclusione dell'inchiesta sulle scalate Bnl e Antonveneta condotta dal pm di Roma Giuseppe Cascini, lo raccontano di nuovo in gran forma. Forte di qualche nuova e antica stampella bancaria ("la Banca Popolare Italiana - spiegano fonti della Procura - lo sta sostenendo nelle procedure concorsuali") è "sempre in viaggio", come tiene a dire la gentile segretaria, nel promettere al telefono che "il Presidente farà senz'altro sapere a Repubblica se e quando potrà rendersi disponibile per un'intervista". Il Presidente, va da sé, non si farà mai vivo. Forse perché anche lui, come Nicoletti, ha qualche buon motivo per preferire il silenzio. Nelle carte dell'istruttoria della Procura di Roma, si documenta infatti che quelle di Mancini, Nino l'Accattone, proprio fantasie non devono essere. Che i legami tra il "furbetto del quartierino" e Nicoletti, tra le sue fortune e il tesoro della Banda, non sono fuffa. Alla fine degli anni '80, Coppola, agli esordi, presenta come garanzie bancarie cambiali in possesso di uomini che fanno capo alla Banda (Aldo De Benedittis). Nel 2003, acquista un appartamento che affaccia sulla villa di Nicoletti e in quello stesso anno conclude affari immobiliari con i fratelli Antonio e Nazzareno Ascenzi, legati a filo doppio a Enrico Terribile, cresciuto sotto l'ala della Banda e uomo di Nicoletti (e con lui condannati per associazione a delinquere nel 2008). Naturalmente, esiste anche il miliardo e 300 milioni di lire ricevuti da tale Antonio Mancini di cui parla l'Accattone. Ma per questo denaro, almeno, Coppola una risposta ce l'ha. E' un curioso "caso di omonimia". L'Antonio Mancini che ha che fare con il "furbetto" e a cui il miliardo e tre sarà restituito con assegni mensili "è un commerciante di abiti". Non l'Accattone, insomma. È un fatto che la somma di denaro di cui parla Mancini collimi come un calco con il debito dell'omonimo commerciante di abiti. È un fatto che, nella storia opaca di Coppola, non sia un caso di omonimia un altro signore: tale Umberto Morzilli. Un tipo con cui il "furbetto" chiude nel 2003, attraverso la società "Toro 91", due importanti compravendite immobiliari. A Rocca di Papa (un terreno edificabile) e a Torgiano, in provincia di Perugia (un lotto residenziale di 14 ville). Soprattutto, un nome da annotare - vedremo subito perché - e per il quale conviene tornare ad ascoltare proprio l'Accattone, sollecitandolo con una nuova domanda. Quando è tornata a sparare la Banda? E contro chi?
"IL MECCANICO" E LA NUOVA SCIA DI SANGUE
"La Banda - dice Mancini - è tornata a uccidere di recente. Il "meccanico" di Centocelle e Emidio Salomone ad Acilia. Andate a guardare chi erano". "Il meccanico" è Umberto Morzilli. Proprio così. Il Morzilli di Danilo Coppola. Due killer lo finiscono con cinque colpi, l'ultimo alla nuca, a Centocelle, periferia di Roma, nel febbraio del 2008. In mezzo alla strada, in pieno giorno, mentre è al volante della sua Mercedes. Cresciuto all'ombra della Banda e titolare di un'officina, di mestiere fa il narcotrafficante ed è legato a filo doppio con Enrico Nicoletti. È garante e terminale di una delle rotte di approvvigionamento della coca verso la Spagna, Marbella, e lavora con la famiglia calabrese dei Parrello, entrata sulla piazza di Roma alla fine degli anni '90. Le cronache chiosano la morte di Morzilli come quella di un vecchio boss "legato alla Magliana". "L'ultimo". Anche se ultimo non è. Perché dopo di lui, nel giugno 2009, morirà ad Acilia Emidio Salomone, appunto. Un colpo in testa anche per lui, al tramonto, di fronte a una sala giochi, dopo essere stato chiamato per nome dai suoi assassini. Salomone arriva dritto dritto dall'album di famiglia della Magliana. Se l'è cavata senza eccessivi danni nel 1993, quando le confessioni di Abbatino smantellano la Banda per come l'abbiamo conosciuta. E' stato l'ombra di Vittorio Carnevale, "il coniglio", e ne ha preso il posto, ereditandone l'autorità. Quando lo ammazzano è una stella di prima grandezza. È il padrone di Ostia e del mercato della droga e ha già dimostrato di poter navigare tranquillo tra le maglie della nostra giustizia (nel 2004, durante una delle sue latitanze, lo arrestano in Danimarca. Ma non metterà mai piede in un carcere italiano perché un Tribunale del Riesame annullerà l'ordinanza di custodia che lo insegue prima ancora che venga estradato). Morzilli e Salomone sono solo gli ultimi due anelli di una catena di morte. Prima di loro, sono stati giustiziati i narcotrafficanti Salvatore Nigro (1997), Paolo Frau (2002), Giuseppe Valentini (2005). E anche nelle loro biografie la Banda fa capolino. Il fratello di Nigro, Mario, della Magliana è stato organico. Soprattutto, racconta Ennio Mazzalupi, "giostrava tutta la droga a Roma per conto di Enrico Nicoletti". Paolo Frau è stato assolto in appello nel maxi-processo alla componente storica della Banda, giusto in tempo per diventare il luogotenente di Salomone a Ostia, dove ha assunto il pieno controllo delle nuove attività sul litorale, del racket delle estorsioni e del gioco clandestino. Giuseppe Valentini, che di mestiere risulta barista, a 38 anni (l'età in cui lo finiscono con un colpo alla nuca nel bar di Porta Metronia "Il gatto, la volpe e il sorcio"), traffica stupefacente con la Spagna, incrociando i cartelli napoletani e calabresi che hanno base a Roma. Morzilli, Salomone, Nigro, Frau, Valentini. Ha dunque davvero ragione Mancini a dire che la Banda è tornata?
"IL METODO E LE RICORRENZE"
Lucia Lotti per quindici anni ha lavorato come pubblico ministero della Direzione Distrettuale antimafia di Roma. Ha arrestato Nicoletti e i suoi figli. Ha lavorato con pazienza e dedizione certosine sulle origini delle fortune di Danilo Coppola e sugli epigoni della Magliana. Le migliaia di pagine di atti dei processi che ha istruito restano, insieme alle indagini dello storico pm della Banda, Andrea De Gasperis, lo sguardo più articolato e profondo sugli epigoni di quella stagione. Oggi, la Lotti è procuratore della Repubblica a Gela. Dice: "Tra la storia di vent'anni fa e quella di oggi esistono delle significative ricorrenze. Ritornano dei cognomi. Si rivede un metodo. Si apprezza una capacità criminale di tenere insieme attori diversi: malavita, camorra, 'ndrangheta, mafia. Troppo poco per dire che esiste un solo padrone della città, ma abbastanza per pensare che le traiettorie di quel gruppo criminale non si siano esaurite". Il generale Vittorio Tomasone, comandante del Nucleo provinciale dei carabinieri di Roma, annuisce. Anche lui ha conosciuto e indagato la Banda di ieri, indaga su quel che ne resta oggi. "Immaginare la Banda come vent'anni fa è un errore. Ma è altrettanto un errore dire che non esiste più. I vecchi elementi hanno potuto modificare abitudini, modo d'essere e mutuare i tratti di altre forme di crimine che sulla piazza di Roma sono da sempre: 'ndrangheta, camorra, mafia".
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